3.b La riabilitazione in acqua
Ti sei immerso in acqua
e nella vita senza risparmio.
Grazie, ci hai insegnato tanto.
Ciao, Arrigo!
Adattamento all’ambiente acquatico
L’ambiente acquatico possiede caratteristiche fisiche peculiari. Analizzando tali caratteristiche e le conseguenze che hanno sul corpo umano immerso, risulta evidente la necessità di effettuare un percorso di adattamento alla nuova condizione. In acqua l’essere umano affronta i vincoli che essa gli impone, rappresentati da fattori facilitanti e da fattori destabilizzanti che lo condizionano e lo impegnano a livello cognitivo, psicologico, sociale, motorio e sensoriale. Per questo l’esperienza acquatica è da considerarsi un’esperienza di tipo globale, in cui è coinvolta l’intera personalità del soggetto e nella quale l’apprendimento avviene attraverso la pratica.
Compiere un percorso di adattamento, dunque, significa raggiungere un grado di acquaticità tale da permettere al paziente di percepire e riconoscere il proprio corpo nell’ambiente acquatico, di controllare tutte le posture possibili e di essere in grado di passare da una postura all’altra, di gestire l’immersione e la respirazione. In altre parole, il nostro paziente deve sentirsi a proprio agio nell’acqua, vivere un’esperienza di piacere e benessere, e raggiungere l’autonomia.
A seconda del grado di acquaticità di partenza, ciascun paziente impiega tempi differenti per raggiungere un buon livello di adattamento. I pazienti che hanno un rapporto difficile con l’ambiente acquatico, che ne avvertono maggiormente il disagio, necessitano di tempi più lunghi e della presenza del terapista al loro fianco: una condizione di maggiore tranquillità e rilassamento permette loro di sviluppare una migliore fiducia in se stessi. Questi soggetti, inoltre, ottengono importanti benefici da proposte differenziate, spesso non propriamente riabilitative, ma attinenti alla sfera dell’acquaticità. Tramite la maggiore confidenza con l’ambiente acquatico saranno in grado, infatti, di capitalizzare al meglio i benefici dell’esercizio in acqua in funzione della propria patologia.
I pazienti affetti da malattie reumatiche, in ragione delle caratteristiche della patologia, seguono programmi riabilitativi di lunga durata, diversificati a seconda della fase in cui si trovano. Durante la fase cronica, o di mantenimento, che segue a quella sub-acuta, essi devono essere in grado, per ottenere i migliori risultati, di muoversi con agio in acqua e di mettere in atto senza difficoltà le diverse strategie riabilitative. Per far ciò è necessario che siano dotati di un buon livello di acquaticità.
Effetti fisiologici e terapeutici dell’esercizio in acqua
Spinta idrostatica (spinta di galleggiamento). Il corpo umano immerso viene a trovarsi in una condizione di scarico ponderale grazie alla diminuzione degli effetti della forza di gravità. La riduzione della componente ponderale induce:
- la diminuzione dell’efficacia della sensibilità propriocettiva, che determina una notevole difficoltà di riconoscimento del proprio corpo nello spazio acquatico, di controllo delle posture, dell’equilibrio e del movimento;
- l’abbassamento del tono muscolare. Se, da un lato, questo fatto facilita il miorilassamento, esso rende, tuttavia, meno efficace la contrazione muscolare e più rischioso il lavoro di stretching, tenendo conto che la percezione del dolore è minore;
- la decoattazione articolare, alla quale consegue una facilitazione del movimento;
- la riduzione della componente algica.
Pressione idrostatica. Agisce in modo uniforme sul corpo umano immerso ed è direttamente proporzionale al peso specifico del liquido e alla sua profondità. Si manifesta, in modo percepibile a tutti, mediante un senso di oppressione a livello del torace e conseguente bisogno d’inspirare. La pressione idrostatica determina:
- la facilitazione al riassorbimento dei liquidi interstiziali, degli edemi e dei versamenti intrarticolari, e un migliore riflusso venoso;
- il riconoscimento del movimento del corpo o di un segmento di esso attraverso i recettori cutanei che avvertono lo scorrere dell’acqua sulla pelle (sensibilità esterocettiva);
- la mobilizzazione dei tessuti superficiali.
Viscosità. È l’indice della resistenza che un fluido oppone agli scorrimenti relativi dei suoi strati interni.
La forza che si oppone al moto di un corpo in un liquido è detta “resistenza del mezzo”. Quando un flusso di liquido scorre lentamente è detto “aerodinamico”, mentre quando la velocità del flusso aumenta viene denominato “turbolento”. Nella linea di flusso aerodinamico la resistenza è direttamente proporzionale alla velocità, mentre nel flusso turbolento la resistenza è proporzionale al quadrato della velocità.
Se un segmento corporeo si muove in acqua con velocità molto limitata, la resistenza che incontra è dovuta quasi esclusivamente alla viscosità del liquido stesso, e, grazie alla spinta di galleggiamento che lo sorregge, si ottiene una facilitazione al movimento determinata anche dai vortici che si vengono a creare intorno al segmento in movimento. Infatti, quando un corpo si muove in un liquido, la pressione aumenta nella parte anteriore e diminuisce in quella posteriore, dove si forma un’area di depressione denominata “scia”, all’interno e ai lati della quale si vengono a creare dei vortici (turbolenza). È possibile utilizzare la turbolenza sia per facilitare il paziente durante la deambulazione, sia per destabilizzare il suo equilibrio. In tal caso la turbolenza viene creata appositamente dalle mani del terapista. Se, viceversa, il segmento corporeo raddoppia la propria velocità, la resistenza che incontra aumenta di 4 volte.
Il movimento lento ha, dunque, come obiettivo la mobilizzazione articolare, mentre il movimento più rapido, grazie all’aumento della resistenza, ha come obiettivo il miglioramento del trofismo muscolare. Per indurre un aumento della resistenza è, in ogni caso, consigliabile l’utilizzo di ausili che aumentino la superficie di attrito (guanti palmati, palette da nuoto), piuttosto che l’incremento della velocità di esecuzione del movimento. Ciò si spiega col fatto che l’aumento della velocità di esecuzione di un movimento comporta un impegno muscolare maggiore e una difficoltà di controllo delle traiettorie a carico di un’articolazione in condizioni patologiche, il che potrebbe risvegliare sintomatologie dolorose con conseguenti compensi e contratture muscolari antalgiche.
Alcune considerazioni sulla temperatura
A proposito della temperatura dell’acqua da utilizzare durante le sedute di riabilitazione, dobbiamo ricordare che il calore prodotto dai processi metabolici di base e dall’attività muscolare, che viene trasportato dal sangue verso la periferia, dev’essere ceduto per impedire che la temperatura interna del corpo salga in modo eccessivo. La cessione di calore, che avviene sempre dall’elemento più caldo a quello più freddo, si compie attraverso le vie respiratorie (espirazione) e la cute (sudorazione).
Quando il corpo umano s’immerge in acqua con temperatura inferiore alla propria, cede calore all’acqua che lo avvolge. La capacità dell’acqua di condurre calore è 25 volte superiore a quella dell’aria, quindi in acqua, alle stesse condizioni di temperatura, ci si raffredda più rapidamente. La temperatura interna del corpo è di 37° e quella esterna (cute) di 33-35°.
Immergendoci in acqua con temperatura più vicina possibile alla temperatura della cute (32-33°), ci si viene a trovare in una condizione termica tendente alla neutralità. Tale condizione ci permette di rimanere immersi per tempi relativamente lunghi (20-60 minuti) evitando un’eccessiva perdita di calore.
L’acqua con temperatura di 32-33° è indicata per eseguire esercizi a contenuto motorio assai blando che hanno come obiettivo il rilassamento e la decontrattura muscolari. Per gli esercizi più dinamici, come la mobilizzazione articolare, il recupero muscolare, la deambulazione e il nuoto, è possibile lavorare in acqua con una temperatura tra i 28° e i 30° a seconda delle condizioni psicologiche e fisiche nonché dell’età e della patologia del paziente.
Presupposti della riabilitazione in acqua
Come abbiamo visto, l’ambiente acquatico possiede caratteristiche fisiche specifiche che obbligano l’essere umano immerso a un lavoro di adattamento. Il terapista, nell’individuare gli obiettivi terapeutici e nel costruire il proprio intervento riabilitativo, deve tenere in considerazione tali caratteristiche fisiche e le conseguenze che hanno sul paziente immerso. A tale scopo suggeriamo alcuni princìpi a cui ispirarsi per effettuare le proposte di trattamento.
- La riabilitazione in acqua dev’essere considerata complementare alle altre strategie riabilitative indicate per il trattamento di una determinata patologia ed è consigliata soprattutto nelle fasi iniziali della terapia. Per alcune malattie, come nel caso di quelle reumatiche, il trattamento in acqua può però essere protratto per periodi molto più lunghi e risultare un’indicazione elettiva.
- Come abbiamo visto in precedenza, le caratteristiche fisiche dell’acqua (spinta idrostatica, pressione idrostatica, resistenza) creano delle facilitazioni (scarico ponderale, migliore mobilità articolare, assenza di dolore) e delle destabilizzazioni (nella postura, nell’equilibrio, nel controllo del movimento). Ciascun paziente, dunque, deve necessariamente raggiungere, tramite l’esercizio, un soddisfacente livello di adattamento al nuovo ambiente per ottenere i benefici che il lavoro in acqua è in grado di garantire.
- Al fine di ottenere i risultati sperati, il terapista deve proporre al paziente lavori specifici, ovvero esercizi che rispettino le caratteristiche fisiche dell’acqua e le loro conseguenze sul corpo umano immerso. È pertanto sbagliato, oltre che inutile, adottare protocolli di lavoro abitualmente utilizzati sulla terra, in quanto non sono adattabili alle caratteristiche dell’ambiente acquatico.
- La riabilitazione in acqua, grazie alla condizione di scarico ponderale del corpo immerso, può essere iniziata prima rispetto a quella terrestre. Anticipare l’inizio del trattamento consente di ottenere benefici dal punto di vista sia fisiologico sia psicologico. Su questo piano, il paziente riceve dalla condizione d’immersione benefici immediati, determinati soprattutto dalla sensazione di essere più leggero e di muoversi con più agio nonché dall’assenza, o dalla forte diminuzione, del dolore durante il movimento. Queste tre condizioni lo dispongono a lavorare con maggiore tranquillità, a concentrarsi di più nell’esecuzione degli esercizi e di conseguenza a proseguire il trattamento, sorretto da forti motivazioni.
- L’esercizio in acqua, grazie alla diminuzione della componente ponderale, permette di evitare alcuni inconvenienti che si verificano spesso durante le fasi iniziali della riabilitazione sulla terra, come microtraumi, situazioni infiammatorie, versamenti articolari, dolore, affaticamento, elementi che obbligano il paziente a interrompere le sedute per sottoporsi alla terapia farmacologica e osservare riposo.
- Durante l’esercizio in acqua è possibile allenare in condizioni di scarico ponderale i segmenti corporei sani attraverso movimenti simmetrici o alternati. Ciò significa che quei segmenti abitualmente sottoposti a sovraccarico e a compensi posturali, messi in atto per sopperire alle carenze funzionali e alle condizioni dolorose dei segmenti malati, possono eseguire esercizi in scarico e quindi evitare l’insorgere di complicazioni (infiammazioni, contratture muscolari, dolore).
Strategie riabilitative
Le strategie riabilitative più comunemente impiegate in acqua sono:
- idromassaggio;
- esercizi di mobilizzazione articolare attiva e passiva e di rilassamento, in decubito prono e supino;
- esercizi di mobilizzazione articolare attiva e passiva, in galleggiamento verticale con l’ausilio di materiale galleggiante (ciambella gonfiabile);
- esercizi per la ripresa del carico sugli arti inferiori, per la deambulazione e per l’equilibrio;
- esercizi di mobilizzazione articolare attiva in stazione eretta;
- esercizi per il recupero muscolare;
- esercizi di nuoto.
Le indicazioni seguenti si riferiscono in particolar modo all’Artrite Reumatoide (AR), più frequentemente trattata in acqua, anche se le proposte relative alla mobilizzazione articolare in scarico ponderale sono valide per tutte le patologie reumatiche articolari sia infiammatorie che degenerative.
Durante la fase acuta della malattia, il paziente è curato dallo specialista con terapia farmacologica e osserva riposo. In questa fase non si effettuano, abitualmente, sedute di riabilitazione in acqua.
Nella fase post-acuta, in contemporanea col trattamento a terra finalizzato al mantenimento delle posture corrette, con gli esercizi respiratori e con la mobilizzazione articolare passiva, ha inizio il lavoro in acqua.
La proposta iniziale, se si dispone dell’impianto, è l’idromassaggio in acqua a 34°.
Il terapista deve tenere costantemente sotto controllo le condizioni del paziente, in quanto l’immersione in acqua calda può provocare, se protratta troppo a lungo, un abbassamento della pressione arteriosa dovuto alla vasodilatazione.
Dapprima l’idromassaggio sarà del tipo “a caduta di acqua fredda”; il foro di uscita dell’acqua dev’essere abbastanza grande da consentire una pressione ridotta e una massa d’acqua maggiore. La cascata di acqua fredda va diretta sulle zone a monte dell’articolazione interessata, che è emersa, e ha l’obiettivo di raffreddare la parte e di abbassare la soglia dolorifica. Successivamente passeremo a un idromassaggio del tipo “a getto di acqua calda” (32° ca.); il foro di uscita dell’acqua dev’essere più piccolo, per consentire una pressione maggiore. Il getto di acqua calda dev’essere tenuto fuori dall’acqua e diretto lateralmente all’articolazione, la quale, immersa, viene colpita di rimbalzo dalle bolle d’aria create dal getto stesso. Questo tipo d’idromassaggio prepara l’articolazione alla stimolazione meccanica e mira alla riduzione delle contratture muscolari.
Le sedute d’idromassaggio, 2-3 alla settimana, possono durare progressivamente da 10 a 20 minuti ciascuna.
In seguito — oppure come prima proposta, se non si dispone d’idromassaggio — proponiamo la mobilizzazione attiva delle articolazioni infiammate. Il paziente eseguirà 2-3 sedute settimanali di 20-30 minuti ciascuna.
Per mobilizzare le articolazioni degli arti inferiori proponiamo la posizione verticale di galleggiamento con l’ausilio di una ciambella gonfiabile.
- Figura 1 — Estensione alternata d’anca a ginocchio esteso.
- Figura 2 — Abduzione e adduzione delle anche a ginocchia estese.
La scelta di utilizzare la ciambella gonfiabile è determinata dal fatto che è possibile, variandone la pressione, regolarne lo spessore. Si permette così al paziente di assumere una postura corretta delle spalle e di evitare dolore e contratture antalgiche. Tale precauzione è particolarmente importante nei pazienti affetti da AR con sintomatologie articolari composite.
Il paziente si pone al centro della ciambella e assume la postura verticale, coi segmenti del corpo ben allineati. Per controllare meglio l’equilibrio, appoggia le mani sul bordo-vasca, sul corrimano o sulla fune galleggiante, mantenendo i gomiti distesi. Lo sguardo dev’essere orizzontale e il respiro lento e regolare. Egli esegue i movimenti con lentezza e non deve forzare i limiti articolari, per evitare l’insorgenza del dolore e delle conseguenti contratture muscolari antalgiche.
In questa posizione il paziente può eseguire mobilizzazioni attive delle articolazioni tibiotarsiche, delle ginocchia e delle anche, con esercizi specifici per ciascuna articolazione e con esercizi che coinvolgano le tre articolazioni in contemporanea.
Se non si dispone della profondità sufficiente, gli esercizi di mobilizzazione possono essere effettuati anche in posizione eretta, coi piedi sul fondo piscina.
- Figura 3 — Rotazione interna d’anca, con anca e ginocchio flessi a 90°.
- Figura 4 — Flessione d’anca a ginocchio esteso.
Per mobilizzare le articolazioni del cingolo scapolo-omerale e degli arti superiori si utilizza la posizione eretta, coi piedi appoggiati sul fondo-vasca, oppure, se la profondità della vasca non è sufficiente, la posizione seduta. Il paziente deve avere le spalle immerse e appoggiare l’arto sano sul bordo, sul corrimano o su una corda con galleggianti. Esegue esercizi di mobilizzazione delle spalle, dei gomiti e dei polsi effettuando movimenti lenti, senza forzare i limiti articolari per evitare l’insorgenza del dolore.
- Figura 5 — Ab-adduzione di spalla sul piano trasverso.
Durante la fase cronica, che possiamo definire come “fase di mantenimento”, il trattamento prosegue con 2-3 sedute settimanali della durata di 30-45 minuti ciascuna.
In questa fase proseguono gli esercizi di mobilizzazione articolare per il cingolo scapolo-omerale e gli arti superiori, e per gli arti inferiori.
Durante la fase di mantenimento è opportuno inserire nelle sedute esercizi di tipo globale, come la deambulazione e, se le condizioni del paziente lo consentono, il nuoto.
Gli esercizi di deambulazione vanno eseguiti in acqua a profondità che varia tra il petto e le spalle, in modo da consentire al paziente di sfruttare lo scarico ponderale.
- Figura 6 — Esercizi di deambulazione.
Se, infatti, il livello dell’acqua si abbassa, l’effetto della forza di gravità è più forte e il paziente va incontro al rischio di sovraccaricare le articolazioni interessate dalla malattia. Attraverso la deambulazione il paziente esercita il controllo dell’equilibrio e la coordinazione dei movimenti.
In tale fase è possibile proporre alcuni esercizi di rinforzo muscolare, tenendo presenti le condizioni patologiche del soggetto: dobbiamo evitare di sovraccaricare le articolazioni con esercizi eseguiti troppo velocemente o ricorrendo ad ausili troppo grandi che aumentino eccessivamente la resistenza.
Il terapista, nella maggioranza dei casi, non è uno specialista di nuoto e, non conoscendo a fondo la tecnica e la didattica delle nuotate, fatica a riconoscere se una nuotata è controindicata e in che modo dev’essere adattata alle esigenze imposte dalla patologia. Per tale motivo, gli esercizi di nuoto vanno proposti, a nostro avviso, come momento ludico-motorio ai pazienti che sanno nuotare o che comunque si muovono in acqua con agio e tranquillità, senza la pretesa di variarne le sequenze motorie. Imporre movimenti differenti da quelli abituali porta infatti il paziente a muoversi in modo rigido e contratto e lo espone al rischio di sovraccaricare le articolazioni.
Per quanto riguarda i pazienti affetti da artrosi, possiamo fare riferimento alle proposte relative alla fase cronica dell’AR, in quanto questi pazienti necessitano di un intervento globale e costante che permetta loro il mantenimento dei progressi acquisiti con l’esercizio.
Per la Spondilite Anchilosante (SA), come per l’AR, la riabilitazione in acqua si accompagna a quella di terra e non viene effettuata nella fase acuta della malattia.
Nelle fasi successive, quelle post-acuta e cronica, proponiamo esercizi in scarico per favorire la postura corretta della colonna vertebrale e la sua mobilizzazione, intervenendo al contempo sulla rigidità e sulle contratture antalgiche tipiche della malattia.
Il paziente deambula in tutte le direzioni dello spazio, assumendo la postura seduta e quella supina coi piedi a terra.
In galleggiamento supino esegue allungamenti della colonna vertebrale, oltre che esercizi di flesso-estensione della stessa. Successivamente, il terapista mobilizza la colonna lateralmente mediante trascinamenti lenti, sostenendo il paziente per gli arti inferiori o le scapole.
Nel corso di tali attività il paziente deve evitare di far emergere gli arti o parti di essi, sia per impedire l’innesco delle rotazioni che per non affondare.
Le mobilizzazioni possono essere combinate nei modi più vari per rendere maggiormente difficili il riconoscimento e il controllo dei movimenti e stimolare il paziente a migliorare la sua coordinazione motoria.
In seguito vengono proposte mobilizzazioni attive e passive a carico del tratto dorso-lombare della colonna in posizione verticale mediante l’ausilio della ciambella.
Il paziente, tenendosi al corrimano o al bordo con entrambe le mani, esegue esercizi attivi di flesso-estensione, rotazione ed estensione del rachide. Staccando le mani dal bordo e mantenendo le braccia abdotte a 90°, esegue mobilizzazioni passive del rachide, in flesso-estensione sia frontale che laterale, mediante lo spostamento passivo degli arti inferiori indotto dall’azione attiva del capo e delle spalle.
Nei pazienti spondilitici con interessamento dei cingoli, sono utilizzati gli esercizi precedentemente illustrati per l’AR.
La riabilitazione in acqua è impiegata anche nel contesto di un programma riabilitativo multidisciplinare e individualizzato della sclerosi sistemica. Concorre alla riduzione del dolore e all’aumento della mobilità articolare, dimostrandosi inoltre efficace sullo stato di benessere globale del paziente.
Esercizi di espirazione forzata e in apnea possono integrare la riabilitazione respiratoria delle sindromi restrittive svolta a terra, ma non devono sostituirsi a essa.
Le malattie reumatiche extrarticolari non hanno, nella riabilitazione in acqua, un’indicazione elettiva. Tuttavia, pazienti affetti, per esempio, da fibromialgia, possono ottenere benefici dall’esecuzione lenta di esercizi di mobilizzazione segmentaria e da lavori globali come la deambulazione e il nuoto adattato, i quali, pur non presentando indicazioni terapeutiche specifiche, permettono loro di godere di momenti di piacere, di benessere e di rilassamento, contribuendo al miglioramento della loro qualità di vita.