Parte prima
4. Le terapie mente-corpo nella riabilitazione reumatologica

4.b Il metodo Feldenkrais-core integration

Indice dell'articolo

Il metodo Feldenkrais è un approccio somatico che si pone lo scopo di migliorare la qualità della vita dell’essere umano ottimizzando il suo potenziale neuromotorio attraverso la rieducazione di schemi disfunzionali e dolorosi.

In quanto metodo di lavoro somatico basato sul concetto di continuità miofasciale, trova la sua maggiore utilità nelle disfunzioni dell’apparato locomotore causate da una cattiva dinamica corporea, spesso origine di complessi quadri clinici di tipo antalgico o di danni e recidive articolari e muscolari all’apparenza di tipo distrettuale. Efficace nel rendere più armonioso, piacevole e coordinato il movimento di persone sane, è spesso utilizzato da coloro che hanno esigenza di ottenere prestazioni fisiche molto elevate, come ballerini, musicisti, cantanti, attori, sportivi.

È una metodica utile nel trattare o integrare il trattamento riabilitativo rivolto a pazienti con patologie muscoloscheletriche infiammatorie acute o croniche e neurologiche.

Le basi del metodo Feldenkrais

Moshé Feldenkrais (1904-1984), scienziato in fisica e in ingegneria meccanica, elaborò in circa trent’anni di lavoro costante ed entusiasta una tecnica originale di tipo propriocettivo, basata sui princìpi della fisica e della biomeccanica, che gli permise di esplorare un campo ancora sconosciuto, come quello dell’integrazione mente-corpo.

La ricerca di Feldenkrais fu di tipo empirico e si sviluppò secondo una logica induttiva, cioè a seguito di un’osservazione ripetuta di fenomeni descrivibili e classificabili in quanto ripetibili e costanti. Grazie alla sua intensa attività di sportivo (fu allievo di Jigoro Kano — maestro e inventore della tecnica del Judo —, prima cintura nera di Judo in Europa e fondatore del primo club di Judo a Parigi) cominciò a rendersi conto che all’origine dei danni articolari, muscolari o delle performance insufficienti dell’atleta non stava tanto il potenziamento muscolare, quanto una buona coordinazione e un’efficiente immagine di sé. Il suo obiettivo diventò quello di comprendere quale fosse il modo migliore per “imparare a imparare”, riuscendo così a migliorare il potenziale fisico e cognitivo dell’essere umano. La sua attenzione si rivolse all’origine della fase dell’apprendimento, quindi all’apprendimento sensomotorio del neonato, e le sue ricerche, svolte in Europa e presso tribù di varia origine a fianco di autorevoli scienziati come Margareth Mead, confermarono che la qualità dell’apprendimento è ciò che forma, sin dall’infanzia, la propria autoimmagine, la percezione, il discernimento e la concezione del mondo, intesa sia a livello meccanico (tra lo scheletro e la forza di gravità a cui è sottoposto) che a livello emozionale (tra il sé e l’ambiente).

Una delle intuizioni fondamentali di Feldenkrais fu che il sistema nervoso non opera una reale distinzione tra percezione e movimento. Il solo modo in cui l’apprendimento può accadere è tramite il movimento e l’esperienza corporea. Come confermano oggi le ricerche di Maturana e Varela, non è possibile scindere la percezione dall’esperienza vissuta, in quanto l’esperienza vissuta è ciò da cui partiamo per l’organizzazione dei processi cognitivi e percettivi (teoria del cognitivismo).

Il nostro cervello e il nostro corpo sono una cosa sola e crescono insieme solo attraverso la differenziazione e la perfezione dei movimenti corporei: il corpo, in un certo senso, è necessario per addestrare il cervello... il cervello non ha alcun contatto con l’ambiente circostante!

I principi fondamentali

Movimento differenziato e indifferenziato. Moshé notò che nel neonato l’azione iniziale era di tipo globale e che l’apprendimento consisteva nello spostamento da un movimento globale indifferenziato a un’azione del sé differenziata e organizzata per compiere una funzione intenzionale.

Il continuo processo di differenziazione (che inizia alla nascita e potrebbe continuare fino alla morte) porta a un affinamento nella parola, nella sensibilità, nella discriminazione: percepire è differenziare una cosa dall’altra.

Nella tecnica individuale che Feldenkrais chiamò «integrazione funzionale» le mani del terapista iniziano a esplorare e a chiarire le differenziazioni più conosciute, e gradualmente a guidare il paziente verso quali e quante possono essere in realtà le opzioni all’interno della stessa possibilità esplorata. Per portare a termine il processo di apprendimento neuro-senso-motorio, dopo aver affinato la differenziazione è necessario passare all’integrazione: per essere capaci di utilizzare se stessi nelle proprie azioni è necessario poter completare l’autoimmagine, cioè percepire tutte le parti che lavorano assieme in totale coordinazione, privilegiando fluidità e risparmio energetico rispetto al potenziamento muscolare.

Il concetto di globalità. Malgrado molti ricercatori del movimento umano sostengano che i compiti semplici studiati costituiscono delle unità costruttive di movimenti più complessi, Feldenkrais ha dimostrato che la funzione intenzionale globale è appresa più facilmente e più rapidamente, dimostrando così di essere un precursore delle attuali scuole fisioterapiche francesi di tipo globale (metodi Suchard, Mézières, osteopatia), basate sul concetto di continuità miofasciale e d’integrazione mente-corpo. Le più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze cominciano a confermare le intuizioni di Feldenkrais: Bizzi, negli Stati Uniti, ha provato su vertebrati spinalizzati che le connessioni neuronali non sono organizzate solo a livello dei centri superiori, ma anche a livello di zone interneuronali propriocettive midollari, le quali, con poche componenti neuronali connesse in modo sinaptico a motoneuroni e gruppi muscolari coattivi per movimenti coerenti (convergenti o divergenti al corpo a varia direzionalità), sovrintendono a una pre-programmazione vettoriale e direzionale dei movimenti. Le caratteristiche di tali schemi motori combinabili, che ripetono in termini direzionali le caratteristiche anatomiche e di disposizione delle catene miofasciali, spiegano la validità di un approccio funzionale-globale, che dimostra di essere non solo un lavoro periferico di ottimizzazione di lunghezze muscolari, fasciali ecc. verso posizioni neutre armoniche e ottimizzate dei vettori di forza, ma un vero bombardamento neurologico lungo vie sinaptiche neurologiche “atrofizzate o bloccate” per effetti di compensi o limitazioni funzionali antalgiche o reattive a problematiche di tipo strutturale, viscerale o psico-metabolico.

L’importanza della respirazione. Respirare correttamente è un atto terapeutico necessario per il riequilibrio muscolo-scheletrico e per il riequilibrio psicosomatico.

I fattori psicofisiologici, come l’ansia, lo stress e la paura, influenzano direttamente la respirazione, coinvolgendo l’intera postura, il tono muscolare e l’autoimmagine.

Il vantaggio di affrontare l’unità mente-corpo tramite il corpo consiste nel fatto che l’espressione muscolare è più semplice perché è concreta e più facile da localizzare.

Sia nelle sessioni individuali che in quelle di gruppo si stimola il soggetto a trovare il modo migliore per sfruttare a proprio vantaggio l’atto respiratorio, utile al miglioramento della funzione. Spesso il movimento può partire da un’analisi dell’atto respiratorio, per poi arrivare a costruire, in base al tipo di respirazione utilizzata, il movimento più consono. Altre volte si può partire dal movimento stesso e sentire come un atto respiratorio consapevole può aiutare o modificare la facilità e la fluidità dell’esecuzione: l’obiettivo finale è che il soggetto impari a utilizzare sia il diaframma che i muscoli accessori alla respirazione nel modo più efficace a seconda dell’intenzione, della forza o della potenza utile all’esecuzione della funzione (ad esempio, se vogliamo salire le scale di corsa, poniamo più attenzione ed espansione alla respirazione toracica; se parliamo con calma, a quella addominale; se ci sono dolori localizzati, ci si può avvalere della respirazione per rilassare, inibire o attivare specifiche catene muscolari ecc.). Eventuali blocchi diaframmatici possono essere rimossi durante le sessioni individuali con tecniche mirate allo scopo.

L’apprendimento individuale passivo e quello attivo di gruppo

Il metodo si distingue sostanzialmente in 2 tipi di apprendimento neuromotorio:
a) quello individuale-manuale, dove il paziente è passivo;
b) quello rivolto a gruppi anche numerosi di persone, dove il terapista guida verbalmente i partecipanti.

L’apprendimento individuale (integrazione funzionale). Consiste in una tecnica di manipolazione non invasiva che educa il soggetto a riscoprire alternative motorie più semplici o meno dolorose rispetto agli schemi abituali selezionati. La tecnica manipolativa non è orientata allo sblocco o alla modificazione strutturale del sistema osteo-artro-miofasciale. Per questo motivo, salvo casi specifici, può essere utilizzata in stati sia infiammatori acuti che cronici, in schemi antalgici dolorosi, in rigidità muscolo-articolari di tipo psicofisico (fibromialgia, stress ecc.). Non si utilizzano ausili meccanici o chimici ma solo materiali utili a migliorare la propriocezione del soggetto (rulli, tavolette propriocettive, coperte, palline, tavolette rigide o morbide ecc.); l’incontro dura circa un’ora ed è ritagliato sulle esigenze specifiche del soggetto, il quale partecipa in modo passivo, condizione necessaria affinché il Sistema Nervoso Centrale (SNC) possa giungere a sostituire schemi neuromotori abituali dolorosi o faticosi con schemi neuromotori più adeguati.

Mediante tecniche propriocettive e di mobilizzazione delicate e assai piacevoli il paziente è guidato verso un nuovo modo di pensare: dal focalizzare l’attenzione sulla limitazione fisica o sulla parte dolente alla presa di coscienza di come egli organizza se stesso per proteggersi dal dolore, alla riorganizzazione neuromotoria verso schemi alternativi più facili, efficaci e non dolorosi.

È come se introdurre un’azione non abituale nel quadro più ampio di una funzione intenzionale completa evidenziasse le “riserve integrative del cervello”.

Spesso il terapista Feldenkrais interviene su segmenti distali rispetto al dolore stesso (ad esempio, interviene sull’appoggio del piede per ripristinare un migliore uso dell’anca, o lavora sulla differenziazione bacino-costole per migliorare l’uso inefficiente di spalle, collo e braccia). Come diceva Ida Rolf, con la quale Feldenkrais ebbe numerosi scambi professionali, non sempre il problema è là dove si manifesta. Ciò permette di trattare anche patologie infiammatorie acute (artrite reumatoide, spondilite anchilosante) in una visione globale, approcciando l’intero quadro disfunzionale.

L’apprendimento di gruppo (Conoscersi Attraverso il Movimento, CAM). Gli incontri di gruppo sono basati su sequenze di movimento semplici ma inusuali e hanno come obiettivo:

  1. ricostruire e ridefinire in modo cosciente le differenti funzioni neuromotorie che l’essere umano utilizza nella prima fase di apprendimento (rotolare, strisciare, gattonare, alzarsi da seduto in piedi, mettersi seduto dalla posizione eretta ecc.);
  2. ricostruire e ridefinire in modo consapevole le funzioni quotidiane più comuni dell’adulto (alzarsi, sedersi, girarsi, camminare, correre, flettersi, allungarsi).

Il linguaggio verbale utilizzato è ricco di immagini ed è talmente preciso e semplice da permettere a tutti di arrivare a capire le differenziazioni più complesse e le funzioni più difficili.

L’apprendimento sensomotorio, che il bambino difficilmente vive con piena consapevolezza, termina per ognuno di noi quando il nuovo modo d’azione diventa automatico o persino incosciente, come lo diventano tutte le abitudini. Il vantaggio di un’abitudine acquisita con la presa di coscienza è che, se il confronto con la realtà si rivela inadeguato, s’induce facilmente una nuova presa di coscienza, in modo da compiere un cambiamento più efficiente.

In entrambe le modalità, individuale e di gruppo, acquisire una nuova abitudine attraverso la consapevolezza consente di migliorare l’immagine di sé, la cinestesi, la propriocezione e le leggi della biomeccanica, come utilizzare correttamente la forza di gravità ottimizzando il concetto di spinta e controspinta dal suolo, distribuire al meglio il carico sulla colonna e sul bacino nelle funzioni sia statiche che dinamiche, ottimizzare il risparmio energetico muscolare a favore di fluidità e coordinazione ecc.

L’evoluzione dei principi di Feldenkrais: la mappa neuro-funzionale dell’apparato osteo-artro-miofasciale

L’evoluzione delle neuroscienze e della scuola francese sulle funzioni della fascia ha portato alcuni degli allievi di Feldenkrais a ridefinire o ampliare i princìpi del metodo. Josef DellaGrotte, sempre negli Stati Uniti, è stato uno dei primi a comprendere che le scoperte di Feldenkrais sul movimento facevano riferimento al concetto oggi conosciuto come “continuità miofasciale”. Il concetto di catena miofasciale è centrale in tutte le tecniche cosiddette “globali”. Si può considerare il metodo Feldenkrais l’applicazione dinamica del concetto di catena miofasciale utilizzato dalla scuola francese (Busquet, Mézières, Souchard, Bricot, Villeneuve) che si riferisce alle componenti muscolari e fasciali del sistema locomotore in continuità anatomica e in coazione sinergico-dinamica. Le catene miofasciali sono delle vere e proprie vie e circuiti comuni di direzionalità e piani di lavoro motorio. Fondamentalmente sono state individuate le catene rette anteriori (arrotolamento-flessione), le posteriori (raddrizzamento-estensione) e le catene torsionali (apertura-chiusura). Dal punto di vista funzionale è attraverso le fasce che le contrazioni muscolari si coordinano e che un certo gruppo muscolare è in grado d’influenzarne un altro a distanza. Le fasce coordinano, collegano e organizzano il sistema delle catene miofasciali muscolotensive selezionate in base alla funzione programmata dal SNC: sincronizzano l’azione di ciascuna parte del corpo col tutto, rappresentando il solo legame completo tra i vari segmenti anatomici, relegando i muscoli a individualità anatomiche e non funzionali.

In base a questo concetto DellaGrotte ha elaborato un’interessante “mappa neuromiofasciale dinamica”, utile all’applicazione pratica delle tecniche di manipolazione e dei processi di apprendimento di gruppo CAM elaborati da Feldenkrais. La mappa di DellaGrotte è una guida pre-programmatica verso un efficiente schema direzionale e vettoriale della funzione, che può diventare in seguito un movimento più complesso, finalizzato e intenzionale. La mappa guida anche il terapista e il paziente a un’esecuzione cosciente delle funzioni basilari sui tre piani di movimento e permette di attuare una rieducazione del movimento e dello schema neuromotorio in direzione della disposizione anatomica delle catene miofasciali bloccate o limitate. Si ottiene così un doppio obiettivo: a livello periferico, l’ottimizzazione delle catene miotensive anteriori, posteriori e di rotazione; a livello centrale si agisce su vie sinaptiche neurologiche “atrofizzate o bloccate” per effetti di compensi o di limitazioni funzionali antalgiche o reattive a problematiche di tipo strutturale, viscerale o psicologico. Si giunge così a ripristinare, in direzione delle catene miofasciali, schemi neuromotori inefficienti, o corretti ma in disuso, riaprendo un flusso elettroneurologico di sentieri sinaptici atrofizzati (studi effettuati mediante la PET o l’elettroencefalografia elettromagnetica).

La mappa di DellaGrotte sintetizza i movimenti base dell’essere umano in 6 vie neurofunzionali di tipo osteo-artro-miofasciale, chiamate “sentieri”, che sono le seguenti:

- n. 1: sentiero dorsale (estensione ed elevazione);
- n. 2: sentiero frontale (stabilizzazione dinamica in flessione);
- n. 3: sentiero della rotazione (girarsi);
- n. 4: grande diagonale spiralica;
- n. 5: laterale (piegamento laterale);
- n. 6: spostamento opposto laterale (piegamento laterale).

Se consideriamo l’effettiva risposta strutturale che a livello funzionale viene attivata dalla testa ai piedi, le parole “estensione”, “flessione”, “rotazione”, in termini di biomeccanica, forniscono una visione molto limitata della reale espressione funzionale e posturale di tutti i “sentieri”, i quali, se attivati in modo corretto, diventano un’efficace sequenza neuromotoria organizzata e connessa di risposte muscolari, una rimodellatura fasciale concepita su una struttura scheletrica di forze di trasmissione.

Sentiero primario 1 — Sentiero dorsale: la via della schiena (estensione ed elevazione). È uno dei primi movimenti evolutivi e fornisce il maggior supporto per quasi tutte le principali funzioni.

Nella funzione di estensione la gravità genera una controspinta che fa partire una forza la quale, attraverso il piede, coinvolge il tendine d’Achille e contrae il gastrocnemio, gli ischiocrurali e i glutei. L’elevazione passa attraverso le articolazioni pelviche, i muscoli rotatori dell’anca che si connettono in profondità coi multifidi, i muscoli erettori della zona lombare, le costole inferiori, fino alla porzione media e superiore della spina dorsale, le spalle fino alle cervicali e alla testa.

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Figura 1 — Sentiero primario 1

Sentiero primario 2 — Sentiero frontale: stabilizzazione (flessione ed elevazione). La stabilizzazione del tronco è fondamentale per realizzare una postura eretta forte e allineata.

La visione della flessione a cui siamo abituati consiste nel piegare in avanti la parte superiore del corpo, o nell’accorciarci, come se stessimo eseguendo un crunchmentre ci alziamo. Ma il crunch fa assai poco per stabilizzare o rafforzare; è, certo, una forma di flessione che protegge la colonna vertebrale, ma va a inibire le sue necessarie caratteristiche di allungamento e reclutamento del pavimento pelvico e della muscolatura addominale più profonda che garantisce alla muscolatura paravertebrale sostegno, allungamento, rafforzamento e flessibilità.

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Figura 2 — Sentiero primario 2

Sentiero primario 3 — Sentiero della rotazione: girarsi. Girarsi significa portare i sentieri 1 e 2 verso nuove direzioni.

La vera rotazione consiste nell’appoggiarsi e nello spingere sulla stessa gamba relativa alla direzione verso cui ci si sta girando, in modo tale che i muscoli paravertebrali possano distribuire rotazione ed estensione lungo tutto il rachide.

Per girare a sinistra occorre spingere e stare sulla gamba sinistra, mentre l’anca sinistra ruota a sinistra e indietro; per girare a destra, si applica lo stesso modello sul lato destro. Come l’anca ipsilaterale va indietro in flessione, così fanno le costole dello stesso lato, aprendosi in una spirale semplice, connettendosi con le spalle e portandole indietro nella stessa direzione; quando tutti questi elementi sono sincronizzati, sono coinvolte soprattutto le catene di rotazione spiraliche, che, partendo dal piede, trasmettono l’energia di movimento attraverso la gamba fino al tronco e alla testa. Se non correttamente educata, la funzione di rotazione è in genere svolta contraendo costantemente i muscoli obliqui interni ed esterni, che diventano più tesi, più corti, ma non più forti, raddoppiando i tempi di esecuzione della rotazione senza che si verifichi anche il necessario allungamento e trasformando così la rotazione in un movimento di torsione che causa una continua frizione e può comportare danni articolari e muscolari.

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Figura 3 — Sentiero primario 3

Sentiero primario 4 — La grande diagonale spiralica. La diagonale spiralica integra elementi del sentiero 3 coinvolgendo rotazione ed elevazione, ma utilizza la gamba opposta come gamba di spinta. Chiamiamo il sentiero 4 “grande spirale” quando viene impiegato in esercizi o azioni di complessa prestazione, come camminare, nuotare ecc. La sua principale caratteristica è di fornire un supporto per l’elevazione, oltre a trasmettere l’energia di movimento sino alla parte superiore del corpo.

La diagonale spiralica parte dalla linea di spinta dal piede e dalla gamba, attraversa il trocantere, l’articolazione sacro-lombare e giunge ad attivare i paravertebrali trasmettendo la spinta fino alla testa.

La forza che in tal modo si genera andrà a ruotare all’indietro e a sollevare verso l’alto le costole del lato opposto della gamba che spinge, facendo rispondere alla sollecitazione anche la scapola coinvolta, completando il flusso risonante del movimento fino alle vertebre del collo, attivando e risvegliando l’intero apparato senso-motorio della percezione e diffondendosi pure nelle braccia e nelle mani.

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Figura 4 — Sentiero primario 4

Sentiero primario 5 — Laterale (piegamento laterale). Il quinto sentiero descrive il più antico movimento prodotto dall’evoluzione, che utilizza una distinta azione di leva e consente il sollevamento, il bilanciamento e la stabilità, accompagnati da un’estensione miofasciale facilmente osservabile nella posizione eretta. In questo modo il corpo utilizza le forze come leve per bilanciare la sua azione locomotoria destra e sinistra, e comunque rimanere al centro senza perdere l’equilibrio. La via 5 consente un’azione di spinta attraverso la gamba, l’anca e le vertebre lombari inferiori che immediatamente traslano, sollevandosi in maniera da andare a coinvolgere l’intera colonna vertebrale, compresa, dunque, anche la base del collo.

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Figura 5 — Sentiero primario 5

Sentiero primario 6 — Spostamento opposto laterale (piegamento laterale). Questo sentiero, complementare e gemello al sentiero 5, consente il movimento per il bilanciamento e lo spostamento laterale; l’unica differenza col sentiero fratello sta nel fatto che il peso del corpo sulla gamba e la linea di allungamento corrispondono allo stesso lato del vettore forza. Uno degli effetti più evidenti è l’allungamento che si sperimenta sul lato esterno.

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Figura 6 — Sentiero primario 6

La mappa di DellaGrotte, qui riportata in una sintesi ortostatica, è utile per chiarire:

  1. quali sono le vie neurofunzionali osteo-artro-miofasciali che, poste in sequenza, indicano la direzione presa dall’energia di movimento trasmessa dal basso verso l’alto, determinando linee di allungamento e linee di contrazione;
  2. quali sono gli appoggi nelle diverse posizioni da cui originano le forze che si trasmettono nelle vie osteo-artro-miofasciali, determinando la trasmissione dell’energia di movimento;
  3. in che modo queste linee passano dal core (punto corporeo di simmetria tridimensionale gestito dalle centraline propriocettive del midollo spinale e responsabile di moduli dinamico-vettoriali a direzione concentrica centripeta o eccentrica centrifuga) e come interagiscono con esso;
  4. quali sono le connessioni che intercorrono tra i vari segmenti muscolo-scheletrici durante lo svolgimento della funzione.

Seguendo la mappa (suddivisa a sua volta, nella pratica manuale, in sotto-mappe utili alla chiarificazione vettoriale e direzionale, relative alla funzione selezionata) è possibile rieducare uno schema disfunzionale mediante l’applicazione delle tecniche di apprendimento neuromotorio di M. Feldenkrais, in modo che:

- l’energia impressa dal movimento attraversi la struttura dai piedi alla testa con facilità;
- il movimento degli arti superiori e inferiori sia ben integrato col core;
- il carico gravitazionale sia distribuito in modo uniforme su tutta la struttura in ogni tipo di funzione.

Dal processo di apprendimento all’esercizio terapeutico. DellaGrotte ha sottolineato come i processi di apprendimento Feldenkrais (CAM) utili all’esplorazione cinestesica e alla rieducazione del gesto tramite la consapevolezza, possano evolvere in un esercizio terapeutico che, mantenendo le stesse caratteristiche di esecuzione relative ai princìpi di Feldenkrais (globalità, fluidità, risonanza e coordinazione), sia in grado anche di rafforzare la muscolatura di sostegno del tronco e degli arti superiori e inferiori. Ciò prevede una ripetizione meccanica dell’esercizio, che, eseguito con una consapevole attenzione alla respirazione e alle connessioni tra i vari segmenti corporei secondo il concetto di continuità miofasciale, è in grado di completare l’originalità del metodo stesso.

Da tali concetti, con la pratica e il coinvolgimento attivo dei pazienti, è possibile costruire e arricchire continuamente sequenze di esercizi che permettono un affinamento costante di propriocezione, stabilità, rafforzamento muscolare, fluidità e coordinazione finalizzati a un crescente miglioramento dell’esecuzione delle attività quotidiane e anche delle prestazioni sportive.

L’utilità del metodo nelle patologie reumatiche. Varie affezioni della spalla, del rachide o delle grandi articolazioni, così come dei tendini, possono avere origine (totalmente o parzialmente) da una gestualità brusca o poco economica, da una dinamica corporea scoordinata e non fluida o da una postura disfunzionale, all’apparenza ininfluente, specie se da lungo tempo fanno parte delle abitudini motorie del paziente. In questi casi è spesso sufficiente rieducare a una migliore distribuzione del carico sull’articolazione e a un più efficace utilizzo dello schema neuromotorio della postura e della dinamica corporea, per ottenere una risoluzione dello stato infiammatorio e un immediato sollievo dal dolore.

Nei casi più complessi, come nelle artriti, è sicuramente utile affiancare la valutazione clinico-medica a una valutazione funzionale fisioterapica atta a valutare quanto un’errata autoimmagine o un apprendimento inefficace precedente o conseguente alla patologia possano incidere sul quadro disfunzionale e doloroso finale del paziente.

In genere, infatti, nel paziente con artrite reumatoide, con spondiloartrite o con fibromialgia si nota un’effettiva alterazione dell’omeostasi posturale, causata da schemi antalgici con dinamica corporea compromessa e con ipotonicità della muscolatura di sostegno del tronco e addominale dovuta a ipomobilità.

Considerate tali alterazioni, sarebbe necessario garantire al paziente reumatico un’attività motoria che non si limitasse ad assicurare la mobilizzazione dei distretti articolari e il rafforzamento muscolare, ma che prendesse in considerazione le disfunzioni anche dal punto di vista neuromotorio, prendendosi cura pure dell’ansia e della spossatezza psicofisica, fattori che accompagnano la vita quotidiana del soggetto.